I ruoli di genere

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Se avete a che fare con dei bambini – magari siete genitori, fratelli o sorelle maggiori, zii, nonni o insegnanti – vi sarete trovati a dovervi confrontare, coscientemente o meno, con tutte quelle piccole e grandi regole e convenzioni che stabiliscono cosa sia “da maschietto” e cosa sia “da femminuccia”. I bambini non nascono sapendo cosa siano i ruoli di genere, ma iniziano ad interiorizzare questi concetti già a partire dai 18 mesi di età, grazie agli stimoli e agli insegnamenti che ricevono.

Alcuni insegnamenti sono funzionali alla crescita e allo sviluppo della propria identità, altri invece possono essere pericolosi. In questa puntata scopriamo cos’è il ruolo di genere e come viene trasmesso.

l ruoli di genere sono insiemi di norme, che si sviluppano all’interno di un preciso contesto sociale e culturale, riguardanti i comportamenti e gli atteggiamenti tipicamente associati all’essere maschio e all’essere femmina. 

In alcune pubblicazioni in inglese potreste trovare i termini gender role e sex role utilizzati come sinonimi e, anche se ormai abbiamo capito che sesso e genere sono due cose diverse, questa sovrapposizione non è tutto sommato priva di senso: il ruolo di genere, infatti, viene attualmente ancora trasmesso e appreso in base al sesso biologico della persona e inteso, peraltro, solo in senso binario, ovvero o maschile o femminile.

Il processo di apprendimento attraverso cui i bambini imparano cosa ci si aspetta da loro in quanto maschi o femmine e quali sono le norme comportamentali legate al loro genere (o meglio, al loro sesso biologico, in quanto non hanno ancora un’identità di genere strutturata) è chiamato socializzazione di genere.

Questo è un argomento complesso e che tocca molte corde sensibili di ciascuno di noi – i nostri valori, il modo in cui siamo cresciuti, il modo in cui educhiamo i nostri figli, eccetera – quindi ci tengo a fare qualche precisazione riguardo a queste prime definizioni.

La socializzazione in generale, ovvero l’apprendimento di qualunque norma sociale da parte dei bambini, non è di per sé né positiva né negativa, e questo vale anche per la socializzazione di genere.
L’educazione, dopotutto, funziona in questo modo: le generazioni precedenti trasmettono a quelle successive delle categorie, dei sistemi di pensiero e di comprensione del mondo, per fare in modo che queste nuove generazioni siano in grado di integrarsi nel contesto sociale e culturale in cui si troveranno a vivere senza troppi disagi o difficoltà.
E’ un po’ come imparare un nuovo gioco con qualcuno che ti spiega prima le regole: affinerai le tue competenze nel gioco con l’esperienza, però ti sono stati dati degli strumenti per orientarti. 

Educare i bambini al maschile e al femminile in base al loro sesso biologico non è, di per sé, né giusto né sbagliato: dipende da come questa educazione viene trasmessa e appresa.

Può essere positiva perché anche grazie a queste rappresentazioni di maschile e femminile, siamo poi in grado di sviluppare il nostro intimo e profondo sentimento di appartenenza ad un genere. Inoltre può essere anche protettiva, quando fornisce le competenze per vivere in un mondo che – giusto o sbagliato che sia – usa ancora molto le categorie di maschile e femminile per distinguere e comprendere le persone.

Ciò che può essere pericoloso per la nostra salute – sia fisica che mentale – è la rigidità nell’insegnamento di questi ruoli e questo insegnamento può avvenire anche in modo implicito, anche quando non diciamo esplicitamente “questo è da maschi” e “questo è da femmine”. 

Inoltre, possiamo immaginarci i ruoli di genere come un insieme di aspettative sociali e, queste aspettative durano per tutto l’arco della nostra vita, sommandosi e modificandosi man mano che cresciamo.

Crescendo, infatti, aggiungiamo dei pezzettini in più a quell’idea di genere che ci viene generalmente proposta e i canali attraverso cui questi modelli ci vengo trasmessi si sommano nel corso della vita: all’inizio ci vengono passati dalla famiglia d’origine, attraverso i metodi educativi, il linguaggio e l’esempio dei genitori; presto si aggiungono la scuola, la tv e gli altri adulti, più in là i social network, le relazioni d’amore e di amicizia e le esperienze lavorative.

Questo insieme di norme e aspettative saranno, quindi, vissute da alcune persone in modo positivo e funzionale, perché ci si riconosceranno; mentre saranno vissute da altre come limitanti e costrittive perché, anche se compiranno degli sforzi per aderire a queste aspettative, non riusciranno a soddisfarle o comunque non senza pagare un caro prezzo dal punto di vista della salute, soprattutto psicologica.

Ed è proprio su questo punto che si deve porre attenzione: il disagio psicologico nasce nel momento in cui c’è un conflitto tra la persona che ci sentiamo di essere e quella che gli altri si aspettano. Se i ruoli di genere mi sono stati trasmessi con rigidità, ma al contempo parte della mia identità non riesce ad allinearvisi, percepirò la frustrazione di non poter esprimere appieno la mia identità e, al tempo stesso, la paura che questa identità sia sbagliata e che gli altr* la disapproverebbero e mi emarginerebbero.
C’è insomma un continuo oscillare, in diverse fasi della vita, tra il bisogno di auto-affermazione e quello non solo di sentirsi accettati ed integrati, ma anche amati.

Eliminare del tutto il conflitto è forse impossibile, perché i ruoli esistono in tutte le culture e non saranno mai in grado di rappresentarci tutt*.  

Il conflitto, però, può anche essere funzionale, perché è proprio dal conflitto e dalle emozioni che ne scaturiscono che – se siamo in grado di metterci in ascolto – può emergere quella riflessione e quella consapevolezza che ci permette di fare un passo avanti nella conoscenza di noi stess*.
Quello che sicuramente si può e si deve fare è rendere questo conflitto il meno distruttivo possibile, per noi e per gli altri, e il primo modo per farlo è renderci consapevoli del fatto che le costruzioni sociali e culturali dovrebbero servire a sentirci appartenenti ad una comunità, ma non ingabbiati e se viviamo e trasmettiamo queste costruzioni in modo troppo rigido, rischiamo di favorire in noi stessi e negli altri dei comportamenti e degli atteggiamenti che possono ledere il concetto di sé e l’autostima.

Nella letteratura scientifica psicologica, si possono trovare moltissime correlazioni tra i ruoli di genere all’interno di una determinata comunità o cultura e i disagi psicologici che le persone appartenenti a quella comunità o cultura si trovano ad affrontare: disagi rispetto alla propria immagine corporea, all’aderenza o meno a standard fisici di mascolinità e femminilità; stress legato al proprio ruolo professionale e familiare; ma anche difficoltà a chiedere un aiuto medico o psicologico.

Avere consapevolezza che queste aspettative e queste pressioni esistono e saperle riconoscere aiuta a comprendere meglio qual è la nostra posizione a riguardo, in modo anche da essere più pront* nel momento in cui ci dovessimo rendere conto che non ci fa bene cercare di aderire a tutti i costi a queste norme.

Rispetto a questi stereotipi – perché di fatto i ruoli di genere in quanto modelli generici sono degli stereotipi – dove ci vogliamo collocare? Cosa di questi modelli ci rappresenta e ci fa sentire a nostro agio e cosa, invece, proprio non ci appartiene?

Il bello degli insegnamenti che ci vengono dati è che non dobbiamo per forza prendere una posizione radicale: o tutto o niente. Possiamo scegliere cosa vogliamo tenere e cosa abbandonare, se allinearci in toto con quello che ci è stato trasmesso, allinearci in parte oppure intraprendere una strada completamente nostra, scoprendola ed esplorandola lungo il tragitto.

Quest’ultima è forse la scelta più coraggiosa, ma può portare a enormi risultati in termini di conoscenza di sé, di autostima e di benessere, però non sempre la si riesce ad intraprendere da sol* e, in questi casi, un supporto psicologico, ad esempio, può darci qualche strumento in più per percorrere con maggiore sicurezza questa strada che, se non priva di ostacoli, ci permette sicuramente di scoprire nuovi panorami.

FONTI:

APA – American Psychological Association. Definitions Related to Sexual Orientation and Gender Diversity in APA Documents.

Pope H.G. et al. Body image perception among men in three countries. American Journal of Psychiatry, 2000.

Stuart B. Murray, Jason M. Nagata, Scott Griffiths, Jerel P. Calzod, Tiffany A. Brown, Deborah Mitchison, Aaron J. Blashill, Jonathan M. Mond. The enigma of male eating disorders: A critical review and synthesis.Clinical Psychology Review (2017).

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