Ho appena finito di leggere un libro. L’ha scritto un filosofo, scrittore e insegnante di filosofia al liceo e parla del fallimento.
Il Magico Potere del Fallimento di Charles Pépin (titolo originale Les Vertus de l’Échec) è un libro che tratta un argomento molto complesso in modo semplice e anticonvenzionale. Ci sono tanti libri sul fallimento, su come affrontarlo, come superarlo, come dimenticarlo e voltare pagina.
Pochi di questi, però, si soffermano su quanto sia utile fallire e su quanto sia inevitabile, perché fa parte della natura umana.
Il fallimento, infatti, è allo stesso tempo un tema dibattuto e un tabù nella nostra società: in contrapposizione a un modello di vita basato sul successo in ogni campo, sulla ricerca della perfezione in ogni ambito, si sta sviluppando sempre di più una sorta di contro-cultura che enfatizza il potere del fallimento che, a mio avviso, è estremamente positiva ma che, purtroppo, è ancora marginale.
Da un lato, questa cultura dell’errore, come la chiama Pépin, esiste e in alcuni contesti e settori è preponderante. Negli Stati Uniti, ad esempio, in particolare nel mondo dell’imprenditoria e delle startup, l’errore non è solo tollerato, è incoraggiato. Lo sbaglio e il fallimento – di un’idea, di un progetto, di un’impresa – sono considerati passaggi fondamentali e imprescindibili per raggiungere il successo, in virtù del principio secondo cui il fallimento porta necessariamente ad abbandonare la strada che si sta percorrendo in favore di un’altra.
Il fallimento porta ad un cambiamento e, nella cultura dell’errore, il cambiamento è sempre un’opportunità.
D’altro canto, la cultura dell’errore non è quella in cui siamo immersi. E non mi riferisco solo all’immagine che percepiamo dai media.
Fin da piccoli non siamo educati all’errore, né a scuola né in famiglia il più delle volte. Anche l’autore lo dice: a scuola gli alunni svolgono un compito in modo originale e con degli spunti significativi, ma fuori traccia rispetto alla consegna iniziale, non vengono incoraggiati a coltivare le loro peculiarità, al contrario vengono solitamente rimproverati – e puniti con voti bassi – per non aver seguito le regole, senza ricevere nessuno spunto positivo.
Secondo l’autore, è come se la scuola premiasse e ricercasse un’ omogeneità mediamente soddisfacente tra tutti gli alunni, piuttosto che riconoscere diversità e peculiarità in ciascun alunno, che potrebbero portarlo ad eccellere in una materia e non in un altra o ad esprimersi in modo personale, piuttosto che seguire pedissequamente le consegne.
Man mano che cresciamo, lo spazio per l’errore diventa sempre più contenuto. Ci si aspetta da noi, in quanto adulti, che la nostra vita segua una certa linearità: università-lavoro-crescita professionale-casa-famiglia-pensione. Il tutto inserito in una cornice di norme più o meno esplicite che la persona di successo, nella maggior parte dei casi, incarna e che possono riguardare l’etnia, l’aspetto estetico, la presenza e il livello di attività sui social, l’orientamento sessuale e l’espressione dell’identità di genere.
Il successo (o il fallimento) nella vita viene decretato in base a questi parametri. Chi mostra incertezze o ripensamenti su questo percorso solitamente non viene lodato per essersi posto delle domande, per aver riflettuto, per aver mostrato senso critico rispetto ad un percorso standardizzato che, in qualche modo, percepisce come limitante. Al contrario, viene spesso considerato indeciso, pigro, inconcludente, nonostante dimostri, nella realtà dei fatti, un grande spirito d’iniziativa e un certo grado di consapevolezza si sé. Senza contare che siamo cresciuti nella filosofia del “volere è potere”, tanto stimolante quanto insidiosa.
“L’affermazione volere è potere è una sciocchezza, oltre che un insulto alla complessità della realtà. […] Per noi che siamo figli del volontarismo occidentale non è così facile da capire.”
C. Pépin – Il Magico Potere del Fallimento
Quello che può essere più invalidante, però, non è ciò che pensano gli altri, ma come questa cultura della linearità – in cui gli errori e i fallimenti sono nascosti, soppressi e taciuti – ci guidi nella costruzione della nostra autostima.
Il fallimento esiste e capita a tutti, di conseguenza tutti dobbiamo farci i conti. Il problema è che se nessuno ci ha insegnato che il fallimento è parte della vita, saremo portati a pensare che sia parte di noi.
Come dice Pépin, confondiamo l’ “aver fallito” con l’ “essere dei falliti”.
Dal punto di vista psicologico, c’è un’enorme differenza nel vivere questi due modi di considerare il fallimento:
- “Ho fallito” = io sono sempre io. Ho fatto un errore ma posso riconoscerlo e imparare una lezione dal mio errore. In questo modo avrò acquisito degli strumenti in più per non commettere di nuovo lo stesso errore in futuro e agire meglio.
- “Sono un fallito” = la mia persona è sbagliata, il fallimento è la mia natura. È inutile cercare di imparare e migliorare perché, qualunque cosa faccia, sono destinato a fallire.
Nel primo caso agisco, imparo, cresco: questo rafforza la mia autostima, anche se ho sbagliato. Nel secondo caso mi arrendo, mi rifiuto di agire, di imparare, di cambiare. E se nulla cambia, anche la mia opinione di me rimarrà la stessa: non farò nulla per migliorare, perché lo ritengo inutile, continuando così a confermare a me stesso che l’opinione negativa che ho di me (“Sono un fallito”) ha dei fondamenti nella realtà. In Psicologia Sociale chiamano questo meccanismo la profezia che si autoavvera o il circolo vizioso dell’autostima.
Ma una lettura del fallimento a cui non avevo mai pensato – sicuramente più suggestiva – è la definizione antropologica di cui parla Pépin in un capitolo di questo libro. Eccola qui.
L’uomo è per natura un animale imperfetto, inadeguato ad affrontare la vita nel momento in cui nasce. Tutti gli altri animali vengono al mondo già compiuti, già in grado di fare ciò che ci si aspetta da loro: agire in base al proprio istinto, al quale però sono anche vincolati e sottomessi. L’uomo invece ha qualcosa che gli altri animali non hanno: la libertà. La libertà di decidere, di agire, di scegliere, ma anche di sbagliare.
Perché la libertà comporta sempre la possibilità di un errore.
È come se l’uomo venisse al mondo prima del tempo e, grazie a questa libertà di sbagliare, imparasse dai propri errori a vivere piano piano, senza i vincoli dell’istinto, rassicuranti ma senza via d’uscita.
È chiaro che, in quest’ottica, è inutile fuggire dal fallimento e negarlo in tutti i modi: ha più senso fare amicizia con l’errore e con la possibilità di fallire.
Ma quello che è davvero potente – e che già si sta iniziando a fare proprio grazie ai social con risultati sorprendenti – è ampliare la nostra concezione successo e soddisfazione personale, raccontando anche storie, realtà e punti di vista che si allontanino dallo stereotipo.
Più punti di vista avremo sul successo, più sarà facile riconoscerci in uno di questi piuttosto che identificarci nel fallimento.
FONTI:
Pépin C. Il Magico Potere del Fallimento. Allary Éditions, 2016.